Roma, 27 febbraio 2025 – (New) Mexico e nuvole, la faccia triste dell’America. Gene Hackman era la faccia triste dell’America, con i solchi, con gli scatti fisici e di nervi (quelli che piacevano a Clint Eastwood che lo diresse ne Gli Spietati e in Potere Assoluto). Quanti gradi di separazione ci sono tra Harry Caul, lo spione che diventa spiato ne La Conversazione di Francis Ford Coppola e Royal Tenembaum, il patriarca di una famiglia di piccoli geni che regrediscono così tanto da arrivare da adulti anonimi a tornare vivere nella casa dei genitori ne I Tenembaums? Meno di quelli che si possa pensare.
Una serie di elementi, tra l’altro, ci riportano alle ultime ore di Hackman (che li interpretò in due epoche diverse della sua carriera) nella realtà. Innanzitutto la solitudine. La scena finale de La conversazione oltre a essere un atto puro di luddismo (distrugge la casa-laboratorio in cui ascoltava le registrazioni della coppia spiata) porta con sé anche la pacificazione (dopo aver distrutto tutto) rappresentata dal sassofono suonato che prende il sopravvento su tutto. Royal invece, dopo essere stato defenestrato dalla famiglia, dopo aver finto una malattia (che non aveva), dopo aver lasciato la moglie alla sua nuova vita, muore a 68 anni per un infarto. Ad assisterlo c’è solo il figlio Chas (Ben Stiller). Ma al funerale ci sono tutti. E quell’epitaffio fortemente voluto – “È morto tragicamente salvando la sua famiglia dal relitto di una corazzata che affondava distrutta” – ha un suono speciale nel giorno in cui Hackman reale è morto davvero. Il corpo è stato trovato vicino a quello della moglie nella sua casa in New Mexico, dove aveva deciso di trasferirsi. Solo (ma idealmente stretto all’ultima compagna della sua vita Betsy, ossessionato che potesse morire prima lei di lui), lontano dalle luci dei riflettori. Aveva abbandonato Hollywood.
Ma da Harry a Royal scorre inesorabile la storia anche contemporanea degli Stati Uniti. Rappresentata non solo da quei solchi. I macchinari con cui Harry spia la coppia sono identici a quelli scoperti (dopo il loro utilizzo) nel Watergate. Su quanto fosse aderente quel film con la realtà dello scandalo che portò alle dimissioni di Richard Nixon si è discusso molto. Anche troppo. Perdendo di vista invece, l’essenza di un film che diventa claustrofobico fino a stringersi attorno come un cappio al protagonista (Harry) che si sente solo contro qualcosa che ormai non può più fermare. Va detto invece che Nixon puntò l’indice – come molti repubblicani che non riuscivano a mandar giù una Hollywood considerata troppo democratica – proprio contro Hackman, rinfacciandogli il suo passato da marine. Nixon si chiedeva come Hackman potesse rinnegare ciò che era stato. Sottovalutando invece, che quella era stata solo una fase della sua vita e che non significava inevitabilmente un’adesione incondizionata alla guerra in Vietnam.
Così come il Royal patriarca – seppure con vaghi accenni per la singolare composizione familiare disfunzionale ad alcuni scritti di Salinger – è l’America sfacciata e beona. Da fenomeno da baraccone. Rappresentata dal Royal fedifrago, impunito, che tutto può ma che conosce anche nella sua amoralità l’abisso. Costretto a fare il concierge col fido maggiordomo Pagoda. Con una famiglia che non riesce più nemmeno – se non nelle bellissime immagini di Wes Anderson – a stare in posa. Perché tutto ha perso la grazia apparente di un tempo. Perché si può scendere sempre un gradino più in basso. E ancora, ancora. Solo fino alla morte, ma il finale non è solitario. Al funerale sono tutti lì a salutarlo. Sconvolge ora, pensare a come siano stati gli ultimi istanti della vita di Gene e di Betsy. Se abbiano visto scorrere tutte le loro vite davanti o solo quella ultratrentennale trascorsa assieme. Sapere come (o di cosa) sia morto Hackman diventa un dettaglio da cronaca o soltanto da Coroner. Gene il tutto – uomo e attore – prima Harry e poi Royal. La faccia triste di un’America raccontata con quell’inconfondibile grugno.
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