Avviso di garanzia, scelta discrezionale del procuratore. Il professor Azzariti smonta le falsità sulla denuncia per il caso Almasri. Mentre la storia mostra che il rischio del processo è basso
Tutto falso. Non era un avviso di garanzia. Non è stata una scelta arbitraria del procuratore di Roma, tantomeno una manovra politica. La trasmissione degli atti al tribunale dei ministri, per valutare il caso del mancato arresto di un ufficiale libico ricercato dalla giustizia internazionale, non si può considerare nemmeno un atto d’indagine. È solo un passaggio giudiziario obbligato, con la procedura più favorevole alle difese, che è assurdo interpretare come un attacco al governo. Anzi, le probabilità che Giorgia Meloni e i suoi ministri debbano affrontare davvero un processo sono «bassissime». E il rischio di una condanna, al momento, va ritenuto «praticamente nullo».
A chiarire questo intrigo legale, che ha scatenato l’ennesimo attacco alla magistratura, è il professor Gaetano Azzariti che insegna Diritto costituzionale alla Sapienza di Roma. Il giurista parte dall’inizio, dall’atto notificato dal procuratore di Roma alla premier e ai ministri coinvolti nel caso di Osama Al Najeem detto Almasri. «Non è un avviso di garanzia», spiega: «È una comunicazione di una trasmissione del fascicolo, che è imposta dalle norme costituzionali e che non rappresenta un atto d’indagine. Quando riceve una denuncia di cui non sia a prima vista evidente l’infondatezza, il procuratore è tenuto a inviarla al tribunale dei ministri senza poter compiere alcuna attività istruttoria. “Omessa ogni indagine”, dice la legge costituzionale del 1989 che impone anche di “darne immediata comunicazione ai soggetti interessati”, cioè ai ministri stessi, a loro beneficio, perché possano replicare subito alle accuse con atti difensivi».
Il procuratore Francesco Lo Voi è stato comunque attaccato per la preliminare iscrizione dei ministri nel registro degli indagati: si è parlato di «atto voluto». Azzariti sgombra il campo anche da questa polemica: «Non è una scelta a discrezione del procuratore, è un passaggio procedurale obbligato per trasmettere gli atti al tribunale dei ministri, che potrà poi indagare, ma anche archiviare. L’iscrizione è regolata dal Codice, che prevede due presupposti davvero minimi: la denuncia deve riguardare un “fatto determinato” e “non inverosimile”. In questo caso il mancato arresto dell’esponente libico è un fatto certo: e che fatto. Oltretutto, c’è stata una denuncia di un avvocato, non si tratta di un procedimento aperto dal procuratore d’ufficio».
Un parere confermato da altri giuristi, che preferiscono non esporsi. Ma allora come si spiegano gli attacchi al procuratore? «Strategia della disattenzione», risponde Azzariti. «Si parla e straparla di diritto, del procuratore che indaga la premier, per distogliere l’attenzione dal fatto, che è molto grave: non è stato eseguito un ordine d’arresto deliberato dalla Corte penale internazionale. È tutto da dimostrare che i ministri abbiano commesso reati: sono convinto che il procedimento finirà per essere archiviato. Ma il fatto va spiegato: il governo deve motivare la propria scelta come atto politico. Invece si preferisce attaccare il procuratore di Roma e la stessa Corte internazionale».
Il protagonista del caso, Osama Al Najeem, già comandante della milizia islamista Rada, è il capo della polizia giudiziaria, che controlla anche le carceri, del governo di Tripoli, l’unico riconosciuto dall’Italia e dalla Ue. Arrestato il 18 gennaio scorso a Torino sulla base di un ordine d’arresto internazionale, è stato rilasciato e riportato in Libia il 22, con un aereo di Stato. È accusato di aver ordinato omicidi, torture e violenze sessuali anche su minori, in particolare nella prigione di Mitiga, dove vengono segregati, a migliaia, i migranti che sognano l’Europa.
L’indagine di Roma nasce da una denuncia presentata dall’avvocato ed ex parlamentare Luigi Li Gotti, che ha ipotizzato due reati: favoreggiamento, per la premier Meloni e i ministri Carlo Nordio e Matteo Piantedosi, per il rilascio del ricercato; peculato, per il sottosegretario Alfredo Mantovano, per il rimpatrio con l’aereo dei Servizi segreti. Per capire se i ministri indagati rischino davvero qualcosa, conviene leggere le norme e contare i precedenti. In tre quarti di secolo di processi per reati ministeriali, si ricordano solo tre condannati. Negli ultimi trent’anni, nessuno.
Il primo fu Mario Tanassi, dichiarato colpevole di corruzione nel 1979, come ministro socialdemocratico della Difesa, per lo storico scandalo Lockheed. Allora l’indagine era affidata a una commissione parlamentare inquirente, il processo spettava alla Corte costituzionale. Ed era necessaria l’autorizzazione del Parlamento anche per processare qualsiasi deputato o senatore. L’abuso di questo privilegio ha spinto i parlamentari stessi a votare a larghissima maggioranza la sua abolizione nel 1993, sull’onda delle oltre 1.200 condanne della Tangentopoli di Milano, dove i magistrati non contestavano reati ministeriali: i politici venivano inquisiti come capi di un partito o di una corrente.
La procedura è cambiata nel 1989, con una legge costituzionale che ha mantenuto l’autorizzazione a procedere per i membri del governo. Da allora le indagini vengono svolte dal tribunale dei ministri: un collegio di tre giudici estratti a sorte fra tutti i magistrati del distretto. Dopo i primi 90 giorni, prorogabili a 150, i magistrati devono ottenere l’autorizzazione a procedere della Camera o del Senato. Dunque, qualsiasi accusa può essere annientata con un voto politico della maggioranza.
Dal 1989 a oggi, nell’archivio storico dell’Ansa si parla di tribunale dei ministri in almeno 3.275 notizie. Ma di condanne definitive se ne contano solo altre due. Franco Nicolazzi è stato condannato, come ministro socialdemocratico dei Lavori pubblici, per aver estorto tangenti a un costruttore milanese, alla fine degli anni Ottanta. Una sentenza convalidata nel 1997 dalla Cassazione, che nel 2011 ha reso definitiva anche la condanna di Francesco De Lorenzo, per corruzione e associazione per delinquere, per le mazzette sui farmaci incassate fino al 1992 come ministro liberale della Sanità. Negli ultimi trent’anni si sono susseguiti procedimenti e polemiche su decine di ipotesi di reati ministeriali. Ma i tribunali dei ministri hanno continuato a funzionare come fabbriche di archiviazioni e proscioglimenti, fino alla recente assoluzione del ministro Matteo Salvini.
A spiegare la scarsità di condanne è anche la procedura ultra-garantista ora rinfacciata al procuratore di Roma. L’obbligo legale di avvisare l’accusato, «omessa ogni indagine», contrasta con il comune senso del pudore investigativo: avvertire l’indagato significa permettere a lui e ai possibili complici di nascondere i soldi e far sparire le prove. Un privilegio che sembra studiato per garantire l’impunità ai ministri.
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