Aspiranti influencer del sociale in Kenya tra danni e pericoli :: MalindiKenya.net

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Se non fosse che uno, e/o una, su mille poi finiscono male, ci sarebbe da mettersi le mani sui capelli e poi lasciarsi andare ad una risata tanto amara e sconsolata quanto liberatoria.

Ma la questione dei “volontari allo sbaraglio” in Kenya e degli “influencer del sociale” è ricorrente e visibile per noi che ci occupiamo degli italiani in questo Paese. E fa soprattutto arrabbiare.

L’ultima vicenda, nei giorni scorsi, come consuetudine è approdata sui social prima che in un consolato o in sedi appropriate locali, in presenza di un avvocato come dovrebbe essere e spesso accade in altre parti del mondo (ma anche del Kenya, se togli Malindi e Watamu…).

Dopo il rapimento di Silvia Romano nel (ricordate?), giovinetta entusiasta mandata allo sbaraglio nel 2018 da una Onlus cialtrona in mezzo al nulla dell’entroterra di Malindi, si era riusciti ad attuare una campagna di informazione sul fatto che un volontario o presunto tale dovesse informarsi prima di partire per il Kenya, seguire possibilmente un corso, come fanno i veri cooperanti, e una volta su posto presentarsi alle nostre autorità, dopo ovviamente aver segnalato la sua presenza nel portale “Dove siamo nel mondo” della Farnesina e dopo aver preso altre precauzioni.

Molte organizzazioni, registrate in Italia o in Kenya o sul pianeta Faidatè, si sono allineate, si sono iscritte al COIKE (Comitato delle Ong italiane in Kenya), si sono presentate al consolato o si sono fatte conoscere in ambasciata.

Altre ci hanno chiesto lumi, incontri, hanno cercato di capire, si sono fatte consigliare studi legali che hanno a che fare con queste dinamiche, e così via.

E’ durata poco, purtroppo.

La Romano, una volta liberata in Somalia, si è radicalizzata e i suoi simili di quando zampettava tra beach boys e bambini poveri ma sorridenti, sono tornati alla generosa e autoappagante incoscienza di sempre, e ancora più “social”.

Cosa ancor peggiore, lo hanno fatto anche tante organizzazioni di volontariato.

Torniamo alla recente vicenda: un aspirante tiktoker del sociale che gira il mondo e raccoglie fondi per cause nobili o almeno così dice (ricordiamo che Tiktok come Youtube non si preoccupa di dove andranno a finire i soldi, si trattiene la sua percentuale e ci paga le tasse) viene fermato dalla polizia con la macchina in sosta vietata.

Evidentemente non conosce la legge keniana, che si basa sul codice britannico, la “common law”. In Kenya non si paga la multa, né al momento, né tramite verbale e bollettino come ad esempio in Italia.

L’unica conciliazione (specie nelle destinazioni turistiche) è quella della “mancetta” che permette a chi ha fatto una cazzata, seguendo magari i locali che hanno fatto la stessa cosa (tipo andare in 4 in motocicletta senza casco o fumare uno spinello), di cavarsela.

La corruzione per molti occidentali è un valore aggiunto, e questo negli anni ha convinto anche i rappresentanti delle istituzioni locali che in fondo stia bene sia al corrotto che al corruttore, ovvero sia all’estortore che all’estorto. Chiaramente non è sempre così e le situazioni vanno viste caso per caso. Ma è più che palese che se non ci fossero corruttori, non ci sarebbero corrotti, neanche in Africa.

Il nostro influencer buono come il pane e ignorante come un chapati, per una insindacabile questione di principio, si rifiuta di dare l’obolo richiesto “aumm aumm”, obbiettando probabilmente l’inutile “così fan tutti” ed esibendo quella padronanza dell’inglese che spesso identifica gli italiani in vacanza in Kenya.

La norma è presentarsi quindi alla stazione di polizia, stendere il verbale (pole pole, ovviamente) e poi presentarsi in Corte per rispondere della contravvenzione e pagarla.

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Importante: chi conosce la legge, sa che ha a disposizione quante telefonate vuole.

La prima ad un avvocato, ad esempio, che nel caso l’appuntamento in Corte sia il giorno successivo, sa come, con una cauzione, non fargli passare la notte in polizia, o anche all’ufficio consolare italiano (esiste un numero per le emergenze, che ognuno dovrebbe portare con sé, stando il fatto che come detto prima, un presunto volontario dovrebbe essersi già presentato).

Questa buona pratica, negli anni passati, ha salvato diversi connazionali: dall’impavido fuori di testa che decise di attraversare la savana dello Tsavo a piedi, alle due ragazze di buonissima famiglia in cerca di emozioni forti che presero un taxi di notte per andare da Malindi a Lamu…solo per citarne due al volo. 

No, il nostro tiktoker depositario della bontà genuina non chiama nessuno che possa assisterlo e spiegargli dove si trova esattamente e perchè.

Si sente così in pericolo che con il telefonino invece di digitare un numero utile, gira un videoselfie per dire che è “in arresto” (in realtà è in stato di fermo in attesa del verbale e dell’appuntamento davanti al giudice) perché non si è voluto piegare alla corruzione (in realtà ha parcheggiato in sosta vietata, però “lo fanno tutti” perché io no che vengo anche qui ad aiutarvi?).

Per finire, avverte che anche se non si tratta di una cella buia e chiusa ma di un corridoio con ampie finestre senza vetri che si affaccia su un cortile, ammette che c’è un fetore insopportabile. Eh già, perché quando si viene a contatto con la vita vera dell’Africa, e non solo con i bambini sotto una palma, le studentesse e gli amici di spiaggia, il “così fan tutti” non presuppone più tanta uguaglianza e solidarietà.


Come va a finire questa storia?

Come tante altre a cui abbiamo assistito, virtualmente o in presenza da trent’anni di cronache di italiani in questo Paese.

Il tiktoker chapataro è stato portato in Corte, ha pagato la multa ed è tornato a fare danni buoni.

Roba piccolissima, intendiamoci, ma quando poi qualche imitatore più volgare, sprovveduto o sfortunato di lui finisce nei casini veri, aspettiamoci peana e corifei tra lo scandalizzato, l’invettiva contro le nostre istituzioni e il razzismo, come peraltro già appare dai commenti al videoselfie del nostro eroe.

L’eroe, ne siamo certi, approfitterà della disavventura, per ricamarci ancora merletti a forma di logo di TikTok. Proseguendo a fotografare bambini (senza sapere che ci vorrebbe una liberatoria dei genitori o della scuola, casa famiglia o altro che altrimenti possono denunciarlo), a raccontare un’Africa sbagliata e soprattutto, ed è la cosa peggiore, senza aver capito una beneamata ceppa del Kenya, delle sue regole, di come si dovrebbe premunire e comportare un connazionale che vuole entrare in contatto “con loro” ma già fa fatica ad essere in contatto con sé stesso, se manca il wi-fi.

P.S. Abbiamo volutamente omesso il nome e cognome del protagonista. In primis per la privacy, ma soprattutto per evitargli quella pubblicità che ha già provato a farsi, approfittando della spiacevole situazione.



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