Almeno una volta, tutti, siamo stati invisibili.
Siamo stati invisibili in casa nostra. Nella nostra famiglia. Perché, lì, c’è stata almeno una volta in cui sapevamo tutto. Cosa pensavamo noi, cosa pensavano gli altri, cosa stava succedendo per davvero, cosa stava succedendo per finta. E, nell’essere invisibili, abbiamo visto: tutto. Antonio Galetta, in Pietà (Einaudi 2024), fa lo stesso. Scompare, anche dalla voce narrante, ci permette di infilarci sotto al tavolo con lui, quelli con le tovaglie lunghe, dove potevi stare interi pomeriggi ad ascoltare i grandi e nessuno si accorgeva mai di te che, invece, c’eri. E non importa se non capivi tutto – anche qui, la leggibilità, la comprensione, quell’aiutare il lettore in cui riponiamo così poca fiducia ultimamente, in una standardizzazione del suono e della parola che dovrebbe preoccuparci di fronte all’incombere di intelligenze artificiali sempre più allenate ed efficaci di noi, vengono meno per lasciare spazio ai fatti, quelli che sono, senza note a margine, senza parafrasi – tu sapevi. E, prima o poi, capivi anche, quando arrivava il momento, tu, capivi.
Come traccia con spietata esattezza Stefano Valenti in Cronache della sesta estinzione (Il Saggiatore 2023): «Non esiste un momento puntuale della catastrofe, la catastrofe non è in agguato, né è già avvenuta. Piuttosto, sta avvenendo», in Pietà ci troviamo di fronte alla stessa incomprensibile situazione dove quello che si sta consumando è frutto di quanto già avvenuto e ciò che avverrà è subito passato plasmante di un futuro incerto e senza senso: è statico Pietà, c’è la parola, non c’è il movimento perché, gattopardianamente, tutto il mondo – che può pure essere un paese, pure una stanza, ma sempre mondo è per quelli che ci abitano – cambia a continua a farlo per opporsi ostinatamente al secondo principio della termodinamica che ci governa e ci condanna a procedere a uno stato sempre meno ordinato, meno comprensibile e, quindi, meno governabile. I personaggi di Pietà, si comportano come chi sa troppo chiaramente che non c’è bene attorno a loro, solo miopi tentativi di ottenere un potere che evidentemente non dura che lo sbatter d’ali di una farfalla che, in realtà, è solo un mucchietto di polvere azzurra, come le cose che deperiscono o sopportano, solo cieche velleità di provare a salvarsi – e nel doversi salvare scompaiono i confini tra uomini e bestie e si svela, alla fine, quella serpeggiante essenza dell’essere spietatamente evoluti che intride ogni pagina, ogni dialogo, ogni pensiero: «Siamo sempre stati feroci. Siete stati voi a cambiare» (Pietà, Einaudi 2024). I personaggi di Pietà, ognuno con la propria pirandelliana maschera, a partire da nomi che sono solo spaventose etichette cucite da una società a cui è impossibile sfuggire, ci dimostrano che alcuni degli aspetti più eclatanti dei risultati delle elezioni si vedono in posti improbabili e, soprattutto, che resistere non serve a niente.
Di fronte a un disturbo della personalità di tale gravità, tanto da aver avuto successo nel cancellare nomi, nello smascherare un’umanità e un voler bene mai presenti, nel mostrare come, da adulti, tutto si sviluppa e si esaurisce senza spargimenti di sangue e, quindi, in una banalizzante superficialità, l’unica soluzione è quella, nella narrazione, di abbracciare e sottomettersi a una prima persona plurale che mi ha ricordato, ma per contrasto, il Malacarne di Giosué Calaciura (Sellerio, 2022): in Malacarne, quel noi («Non eravamo più niente») ha il carico e la responsabilità di un annientamento radicale, espresso inserabilmente nel finale del romanzo («Signor giudice, non eravamo più niente sin da quella mattina di maggio, con tutte le cose al loro posto prima che la vita e in seconda istanza la morte le confondesse per sempre con l’annuncio effimero di un’altra primavera breve signor giudice»); in Pietà, invece, si rivela essere l’unica illusoria salvezza per quando è presto per avere delle certezze sulle ragioni di questo o quello, persino di cosa sia accaduto veramente e, per essere salvi, il prezzo da pagare è rinunciare a ben altro.
Come sviscera chirurgicamente Claire Dederer nel suo Mostri (Altrecose 2024): «Noi è un’uscita di sicurezza. Noi è conveniente. Noi è un modo di disfarsi della responsabilità personale e al contempo di ammantarsi di autorità senza sforzo. […] Noi è una finzione». È la stessa entità che troviamo dietro fenomeni come la cancel culture che, come ben identificato da Manolo Farci nella sua riflessione a partire da La correzione del mondo (D. Piacenza, Einaudi, 2023): «[…] non è un fenomeno isolato, ma il riflesso di un problema ben più ampio e radicato che riguarda il modo in cui scegliamo di confrontarci con i nostri avversari ideologici». Quel noi è un’entità basata più sull’emotività che sulla razionalità. Quel noi è ciò che sta dietro al successo dei social media di cui Pietà non può – e giustamente – fare a meno. La prima persona plurale di Pietà è l’incubo dell’allucinazione di cui siamo tutti prigionieri: quel noi non esiste, è solo l’illusione di esserci ancora, laddove, esserci, rischia spesso se non sempre di essere solo espressione di un inscansabile slacktivism (l’attivismo realizzato sui social con un “costo personale” veramente minimo, All Eyes on Rafah probabilmente uno degli esempi recenti più eclatanti), di banalizzare la verità, di assuefarci sempre di più a ciò che appartiene allo schermo e non alle persone – alle vittime.
Galetta, quindi, non si occupa solamente di politica provinciale, di qualcosa che rischiamo di vedere sempre più lontano da noi, Galetta si occupa di noi. Della nostra società. Di quello che siamo diventati. Di quello che non ci accorgiamo di essere. La pietà invocata nel titolo manca perché ci manca, troppo preoccupati da altro sempre più disumano, sempre solo più virtuale, come già si era accorto Luciano Bianciardi: «E poi mi sono accorto che andando in centro trovi sì qualche conoscenza, ma ti accorgi subito che la tua conoscenza è un fatto puramente ottico. Non trovi le persone, ma soltanto la loro immagine, il loro spettro, trovi i baccelloni, gli ultracorpi, gli ectoplasmi» (La vita agra, Rizzoli, 1962).
In copertina: foto dal Premio Calvino
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