«Lo Stato non giunga mai a “negare” forme di assistenza e tutela a malati cronici»

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SANITA ‘ – Il presidente dell’Amci Stefano Ojetti interviene sul suicidio medicalmente dopo la presa di posizione della Regione Toscana

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Dal presidente nazionale Associazione Medici cattolici italiani riceviamo e pubblichiamo

 

di Stefano Ojetti

 

Fa molto discutere la recente decisione del Consiglio regionale della Toscana che ha recentemente approvato la norma sulla liceità di poter richiedere il suicidio medicalmente assistito: vittoria o sconfitta?

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Vittoria” secondo la logica di chi ha dichiarato in passato, nel corso di un programma televisivo: arrivare ad “ammazzare chi è d’accordo ad essere ammazzato”. “Sconfitta” secondo quanto affermato dal presidente della Conferenza Episcopale Toscana Cardinale Paolo Lojudice: «Sancire con una legge regionale il diritto alla morte non è un traguardo ma una sconfitta per tutti».

 

Il dottor Stefano Ojetti

Tra le tante problematiche del fine vita emergono, infatti, quelle riguardanti la rinuncia/rifiuto alle cure e il suicidio medicalmente assistito. Mentre monta nel Paese una cultura eutanasica, nobilitata al contempo da libertà e pietà, un acceso dibattito si apre su delicate e controverse questioni che riguardano non solo le condizioni di vita debole ma anche tante altre problematiche umane, familiari, culturali, politiche, giuridiche, etico-deontologiche e legislative.

 

L’intera problematica del fine vita rappresenta al tempo presente certamente un’opportunità di dialogo, di confronto, di perfezionamento assistenziale verso l’eubiosia (buona vita), vera sfida per un rinnovato umanesimo della cura, da riaffermare esaltando quel mirabile impegno personale e professionale, scientifico ed umano, che da sempre contraddistingue l’azione medica nella quotidiana lotta contro la malattia e la sofferenza per la difesa della vita.

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Comprendiamo che la richiesta di suicidio assistito nasce sovente dal rifiuto di continuare a vivere in condizioni di precarietà e grave sofferenza, ma dovremmo essere molto attenti a non accettare con facilità il disumano “per pietà e compassione”.

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È giusto riconoscere la libertà e l’autodeterminazione a tutte le persone, ma questo non dovrà e non potrà confliggere con la libertà del medico. Alcuni iniziano a catalogare tra “vita e non vita”, tra “degna e non degna”, tra il “morire con dignità” e il “morire senza dignità” etichettando così con soggettivi e arbitrari giudizi condizioni di vita fragile. Una morte degna è da assicurare a tutti, questo è lo scopo principale del curare e questa azione, che ha una valenza oggettiva, non può trovare scorciatoie rispetto a pratiche di sostegno e di accompagnamento dell’ammalato nelle ultime fasi della sua vita.

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Crediamo fermamente, pertanto, che non si possa far rientrare tra i doveri professionali e deontologici del medico il suicidio assistito e ancor più l’eutanasia. Non sono queste opzioni terapeutiche possibili e praticabili nell’alleanza medico-paziente e nella relazione di cura e di fiducia il medico si troverebbe in un conflitto morale con sé stesso soprattutto se le sue attività risultassero mere prestazioni tecniche senza valore umano ed etico.

 

Tutti i medici, ancor più se cattolici, rappresentano l’assoluta incompatibilità tra l’agire medico e l’uccidere, perché chi esercita la difficile arte medica non può scegliere di far morire e nemmeno di far vivere ad ogni costo, contro ogni ragionevole logica. La sofferenza del paziente non può essere eliminata a scapito del bene vita.

 

Nel processo del morire l’azione del medico deve necessariamente essere quella di accompagnamento, di prossimità, di impegno professionale, certamente sempre rinunciando a terapie sproporzionate o straordinarie, inutili, futili e gravose (accanimento terapeutico).

 

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Si ribadisce pertanto la necessità e l’urgenza di attuare su tutto il territorio nazionale le grandi potenzialità della legge 38/2010 “disposizioni per garantire l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore”, sottolineandone l’importanza e la necessità di mantenere i malati terminali in un percorso esistenziale, sostenuto al massimo da rapporti umani ed affettivi.

 

Ai medici pertanto, non può e non deve essere richiesto il compito di favorire la morte, il fine della medicina, infatti, è quello di guarire, quando possibile, curare costantemente, consolare sempre. Chi esercita la difficile arte medica, non può scegliere quindi tra il far vivere o il far morire, l’unica possibilità che può esercitare è, sempre e comunque, a favore della vita, perché è la sua coscienza che glielo chiede e la sua professione che lo impegna a farlo.

 

Occorre pertanto l’obbligo da parte dei medici di condurre adeguate, efficaci, complete terapie del dolore e cure palliative senza mai determinare atti di allontanamento o di assenza di cure (abbandono terapeutico); ribadendo, al fine di evitare qualunque fraintendimento o dubbio, la loro stabile e immodificata posizione nel non assecondare volontà suicidarie.

 

E’ necessario pertanto che lo Stato non giunga mai a “negare” forme di assistenza e tutela a malati cronici, anziani, disabili, malati di mente, ecc., avvalorando in tal modo forme di eutanasia sociale o selezione dei fragili e dei deboli.

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