Ha preso la guida della Fondazione Ant dal padre Franco e l’ha portata in Europa: «Bisogna rispondere ai bisogni»
Ha raccolto l’eredità di guidare la Fondazione Ant, l’associazione nazionale tumori ideata e fondata dal padre Franco, un impegno a cui da un paio d’anni ha sommato la vicepresidenza dell’Acer, l’azienda pubblica che gestisce le case popolari di Bologna. «Quando ci si impegna nel sociale bisogna affrontare i problemi in modo pratico e riuscire a dare risposte concrete». Un imperativo quasi, per Raffaella Pannuti, classe 1973, energia allo stato puro e tante idee per la testa. E l’Ant nel sangue. «Ant ha sempre fatto parte della mia vita — dice —, io sono nata nel ‘73, mio fratello nel ‘75 e l’Ant nel ‘78. Mio padre raccontava sempre in famiglia cosa stava facendo per l’Ant».
L’Ant come una sorella più piccola per lei. Però si è laureata in Chimica industriale. Pensava a una carriera diversa?
«Mi sono laureata in Chimica industriale ma in un laboratorio dell’Ant che è nata come ricerca in primo luogo. Al tempo si usava il Map, il Medrossiprogesterone, che è un principio attivo per il tumore al seno, che però non funzionava. Mio padre ebbe l’intuizione di fare il Map ad alta dose e c’era un laboratorio a Chimica industriale dove veniva studiato. Mi laureai lì e poi iniziai a lavorare in un laboratorio di analisi ambientali. Poi mio padre mi disse che si era liberato un posto nell’ufficio stampa: se vuoi…».
E lei rispose sì.
«Una mattina lasciai sotto la sua tazza della colazione un bigliettino con scritto che sarei andata. L’ho ritrovato nel 2018 quando è morto mio padre. Lo aveva conservato per tutti quegli anni».
Suo padre è stato un importante professore universitario, primario di un reparto di Oncologica al Sant’Orsola tra i più importanti d’Italia. Poi seguendo la sua idea di Eubiosia, ovvero portare la buona vita nella casa del malato, ha fondato Ant. Non sarà stato facile cominciare a lavorare lì.
«Era il 1998, lo chiamavo anch’io professore, come tutti gli altri. Fu una grande scuola, complicata anche perché la sua era una personalità forte. Ho fatto la gavetta, prima all’ufficio stampa, poi agli Affari generali infine nel 2011 mio padre rinunciò all’incarico e diventai presidente. Un onore che mi sono dovuta guadagnare, i delegati che avevano contribuito a realizzare l’Ant in giro per l’Italia vedevamo me arrivata così… ma nessuno di loro ha lasciato il proprio incarico. In questi anni ci sono state tante battaglie da combattere, sono cambiate molte cose, leggi nuove, il Cinque per mille e infine il Covid.Non ci siamo mai fermati. È stato dato un assetto organizzativo all’Ant che andasse oltre al suo fondatore. E questo mi ha permesso anche di rispondere alla chiamata dell’Acer, nel 2022. È un altro modo per partecipare al sociale, aiutare le persone che hanno un bisogno».
La Fondazione Ant è cresciuta moltissimo dal 1998 a oggi, diventando una realtà consolidata non solo a Bologna ma anche in Italia.
«Il bilancio è passato da 10 milioni a circa 30 milioni, i medici e gli infermieri erano 100 e oggi sono 200, sparsi in tutta Italia. Abbiamo in tutto 500 dipendenti e 2000 volontari, assistiamo 10mila persone all’anno in 29 province italiane. Abbiamo trasformato una start-up in un’azienda di solidarietà. Ant oggi è la più grande organizzazione che si occupa di cure palliative. Credo nel detto che dice un’idea diventa una buona idea quando c’è sviluppo. Mio padre aveva già iniziato a portare l’Ant fuori dai confini della città, ma poi c’è stato un forte investimento nel dare risposte concrete. Nel 2004 abbiamo cominciato con i programmi di prevenzione dei tumori con i due ambulatori mobili e ora siamo arrivati anche in Europa. L’intuizione di andare in Europa è stata mia».
Com’è andata?
«Un giorno vedo una mail per una call per partecipare in Europa a gruppi di lavoro sull’invecchiamento. Presentai il curriculum dell’Ant, ci furono alcune verifiche e il 4 luglio 2015 ero a Bruxelles. Da lì cominciò la nostra progettualità al di fuori dell’Italia».
Un bel traguardo, considerando che agli inizi non fu facile per l’Ant essere accettata, c’era l’idea che l’assistenza ai malati fosse a completo appannaggio del pubblico. Oltre che diffidenza, da certe parti c’era pure ostilità nei vostri confronti.
«L’assistenza domiciliare dell’Ant è iniziata nell’84 con l’assistenza a mio nonno da parte di mio padre e di un’infermiera che aveva preso a pagamento. Fu allora che mio padre ebbe l’intuizione dell’Eubiosia e di portare la cura domiciliare a tutti. La prima convenzione fu fatta con l’allora Usl Bologna Sud ed era il 1989. Ci sono voluti quattro anni perché l’allora direttore dell’Usl sosteneva che l’assistenza si faceva solo in ospedale. Fu una rivoluzione copernicana».
E oggi come va?
«Nonostante le cure palliative domiciliari siano il setting più adeguato per le malattie croniche e per il fine vita ancora oggi in Emilia-Romagna l’ente terzo settore non è visto sempre allo stesso modo. Abbiamo una collaborazione importante con l’Ausl di Bologna, ma a Modena e Ferrara faticano a vederci, ritengono che l’assistenza pubblica sia migliore. Io sono contraria a un’assistenza pubblica per pochi e a favore di un’assistenza integrata per tutti. In questo momento storico, con i bilanci negativi e la carenza di medici e infermieri l’assistenza deve essere integrata con il terzo settore che è il partner migliore per garantire un ventaglio di assistenze buono per tutti. All’Ausl di Bologna la convenzione con noi costa 800 mila euro, noi spendiamo quasi 4 milioni: se non ci fosse l’Ant l’Ausl dovrebbe mettere di tasca propria i 3,2 milioni».
Chiunque abbia dovuto sperimentare l’assistenza dell’Ant per un parente o un amico pensa che non potrebbe farne a meno.
«Il 97-98% delle persone ritiene che sia buona o molto buona l’assistenza che diamo. È anche una questione di tempo. E faccio un esempio: il 24 dicembre una persona ci ha cercato perché non sapeva come fare, aveva la propria persona cara in fin di vita, il nostro medico è andato anche se era il 24, poi ieri (il 29, ndr) quella persona è morta . Quella famiglia non si è sentita sola».
Come fa l’Ant con le difficoltà di trovare medici e infermieri?
«Nel 2023 è partito un gruppo di lavoro con medici, infermieri e un giurista per riformulare il nostro modello di assistenza domiciliare sugli infermieri che vanno alle visite programmate e i medici che vanno a chiamata. È meglio che un medico risponda solo al telefono o che a casa ci vada un infermiere preparato? È meglio che magari di notte vada l’infermiere a vedere cosa succede. Ci sono carenze causate da errori di programmazione a livello nazionale, allora troviamo strade alternative. Ant non solo fornisce assistenza domiciliare ma cerca strade innovative per garantire risposte. E lo stesso principio vale per le case popolari».
Cioè?
«Abbiamo lanciato il bando per le cosiddette fasce grigie, con redditi medio-bassi, che non entrano nelle graduatorie Erp, ma non ce la fanno a pagare un affitto nel libero mercato. Ottengono alloggi a canoni calmierati, in cambio dovrà farsi carico dei lavori di ristrutturazione che saranno scalati dall’affitto. Bisogna trovare soluzioni alternative ai bisogni. E mi aspetterei che il pubblico desse al terzo settore la possibilità di operare ed essere innovativi».
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