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Crisi Stellantis, la politica è senz’armi e senza strategia #finsubito prestito immediato


La crisi coinvolge tutti i gruppi europei e deriva soprattutto dall’eccesso di capacità produttiva. Parigi e Berlino hanno un’influenza maggiore sui grandi gruppi grazie alle loro partecipazioni

L’uscita di Carlos Tavares da Stellantis ha lasciato il gruppo in una situazione di incertezza e ha riportato l’azienda al centro del dibattito politico. Al di là del consueto gioco delle parti, la prima domanda da porsi è: può fare qualcosa la politica?

La crisi è generalizzata. Il settore auto soffre da decenni di una sovraccapacità produttiva in Europa, aggravata dal calo seguito al Covid: dal 2019 al 2023 le vendite sono diminuite di tre milioni di veicoli. A questo calo congiunturale si è aggiunta l’erosione di quote di mercato da parte dei concorrenti asiatici. Le conseguenze pesano sulle case costruttrici e anche sui loro fornitori.

Crisi di lungo periodo

La situazione di Stellantis è la più difficile anche perché il gruppo ha subito una continua perdita di quote di mercato. In Italia alcuni impianti sono quasi fermi e altri lavorano a singhiozzo, con dipendenti in cassa integrazione e migliaia di dimissioni incentivate. La produzione italiana è crollata del 40 per cento nei primi nove mesi del 2024, ed è più che dimezzata nel solo terzo trimestre per il calo di vendite e lo stop alla produzione di modelli come Fiat 500X e Maserati Levante.

Già FCA aveva perso quote di mercato sotto la gestione di Sergio Marchionne, per la decisione di limitare gli investimenti e ritirarsi da alcuni segmenti di prodotto. Dopo la nascita di Stellantis, Tavares ha proseguito sulla stessa linea, con una politica di taglio generalizzato dei costi che ha permesso di aumentare i profitti anche con vendite stagnanti.

Commentando l’uscita di Tavares, il ministro delle Imprese, Adolfo Urso si è detto «convinto che sarà possibile accompagnare questa svolta affinché l’auto italiana torni al centro dei progetti di sviluppo industriale di Stellantis». Questa è nel migliore dei casi una pia illusione.

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Stellantis è un’azienda olandese che ottiene la maggior parte di ricavi e profitti fuori dall’Europa. La controllata italiana pesa per il 15 per cento circa sul fatturato consolidato e ha il 13,6 per cento dei dipendenti. Con la fusione tra FCA e PSA il centro di gravità europeo si è spostato verso la Francia anche se le dimensioni del gruppo nei due paesi sono simili.

Nei confronti dell’unico costruttore “nazionale” l’Italia è in una posizione più debole di quanto non siano Francia e Germania rispetto a Stellantis, Renault e Volkswagen: Parigi è infatti azionista delle prime due, mentre in Germania il governo del Land della Bassa Sassonia ha una minoranza di blocco in Volkswagen.

La quota pubblica in Volkswagen ha permesso al Land, alleato con i sindacati rappresentati nel consiglio di sorveglianza, di pesare sulle scelte strategiche del gruppo. Molto meno lo ha potuto o voluto fare Parigi con la partecipazione storica in Renault e con quella in Peugeot, acquisita dopo il salvataggio del 2013.

I gruppi francesi e FCA hanno storicamente delocalizzato più di quanto non abbia fatto la Volkswagen, anche perché quest’ultima dispone con Audi e Porsche di marchi di alta gamma i cui prezzi di vendita possono assorbire meglio costi di produzione più elevati. La stessa Volkswagen è stata aiutata dalla posizione dominante che fino a pochi anni fa aveva sul mercato cinese; un’arma a doppio taglio, visto che il calo delle vendite in Cina ha provocato le attuali difficoltà del colosso di Wolfsburg.

Al di là dell’influenza che Parigi e Berlino possono esercitare come azionisti, le politiche di austerità nei conti pubblici hanno portato quest’anno a tagli nei fondi per incentivi al mercato e sostegni diretti al settore in tutta Europa. La Germania ha tagliato un anno fa bruscamente gli incentivi alle vendite di auto elettriche e a Parigi il governo dimissionario di Michel Barnier aveva annunciato una loro riduzione.

Meno fondi da Roma

Il governo Meloni ha fatto lo stesso nel progetto di legge finanziaria per il 2025, anche se Urso ha poi ventilato in un intervento alla Camera questa settimana un loro reinserimento. Roma continua comunque a finanziare in misura consistente la cassa integrazione che di fatto permette a Stellantis di non chiudere le fabbriche.

Di fronte alla riduzione delle commesse Stellantis, molte delle aziende fornitrici di componenti avevano da tempo puntato sull’export, soprattutto verso la Germania. Anch’esse sono però messe in difficoltà dalla crisi dei colossi tedeschi. I tentativi del governo italiano di attirare qualche costruttore cinese in cerca di una base europea sono stati finora vani, e i big di Pechino hanno scelto Ungheria, Spagna o Turchia.

La crisi è comune e la coperta è corta. Un esempio: Stellantis ha deciso qualche mese fa di aumentare la produzione dei furgoni Ducato a Val di Sangro, ma l’operazione è stata possibile solo per il taglio di un turno alla fabbrica polacca di Gliwice, che sforna gli stessi veicoli. Una multinazionale come Stellantis sposta produzioni in base a criteri economici, mentre quelli politici giocano raramente un ruolo e difficilmente il governo potrebbe imporre a Stellantis di riportare in Italia produzioni delocalizzate.

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Al di là dei provvedimenti congiunturali, quello che è mancato finora è una strategia di lungo periodo per quello che resta il settore industriale più importante del paese, con oltre 160mila addetti.

Di fronte alla transizione verso la mobilità elettrica imposta dal riscaldamento globale e tradotta dalla UE nel Green Deal approvato l’anno scorso, il governo italiano si è messo alla testa del movimento contro la transizione ecologica. Una scelta miope perché la crisi produttiva e occupazionale del settore auto europeo non nasce con la conversione all’elettrico.

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