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Con i finanziamenti dati a Fiat, lo Stato l’avrebbe potuta comprare più volte #finsubito prestito immediato




Ultim’ora news 3 dicembre ore 20


Fiat: Fabbrica Italiana Automobili Torino. Non esiste società più geograficamente definita che di fatto non sia ormai di fatto né italiana, né torinese. Da un decennio, ancor prima della fusione con il gruppo Psa-Peugeot, aveva stabilito la sede legale ad Amsterdam e la sede fiscale (causa tassazione favorevole sui dividendi) a Londra. Anche se la capitale britannica adesso è fuori dall’Unione europea. Con l’ingresso in Stellantis la sede legale rimane ad Amsterdam, mentre quella operativa è stata collocata in una cittadina olandese di 77 mila abitanti dal nome impronunciabile (Hooffddorp).

La Fabbrica italiana automobili Torino è controllata da una holding della quale la Exor della famiglia di Giovanni Agnelli è il principale azionista con il 14,4% ma la gestione di Stellantis non è in mano agli italiani bensì al socio francese. Fino alle sue dimissioni, il capo indiscusso era il manager portoghese Carlos Tavares, ex ceo di Psa. Autorevoli commentatori hanno interpretato tutte le azioni intraprese dagli eredi Agnelli dopo l’improvvisa scomparsa di Sergio Marchionne come segnali di un progressivo e irreversibile disimpegno dal settore dell’auto. Ecco materializzarsi, stavolta in salsa francese, un piano che sembrava prendere corpo un quarto di secolo fa con la Fiat ingoiata dall’americana General Motors. Allora fu sventato da Marchionne. Una figura simile all’orizzonte adesso non si scorge proprio. E i risultati si vedono.

Licenziamenti e cassa integrazione

Dagli stabilimenti italiani della Fabbrica italiana automobili Torino, i cui proprietari sono i primi azionisti di Stellantis, esce oggi una quota inferiore al 10% dell’intera produzione di quel gruppo automobilistico. E lo stabilimento torinese di Mirafiori, un tempo fiore all’occhiello della Fiat, è da anni alle prese con lo stillicidio dei licenziamenti e della cassa integrazione.

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Per decenni la narrazione in voga ha fatto coincidere lo stato di salute della Fiat con lo stato di salute del Paese, anche se questa teoria non ha mai avuto solide basi. Ora, per fortuna, meno che mai.

Restano le illusioni, come quella che un giorno fece dire all’ad Marchionne: «Voglio che la Fiat diventi la Apple delle auto». Cosa che, per certi aspetti, si è addirittura realizzata. Però non nel senso auspicato da Marchionne. Come i prodotti della Apple sono sempre stati i più costosi per i consumatori, così la Fiat è l’impresa costata più cara ai contribuenti italiani. Su questo giornale l’abbiamo raccontato più volte, ma alla vigilia di un nuovo radicale passaggio vale la pena di riepilogare l’accaduto.

Le stime su finanziamenti pubblici e sussidi statali che a vario titolo la Fiat ha ottenuto nell’ultimo mezzo secolo sono le più varie. Soprattutto, con il continuo ricorso alla cassa integrazione rappresentano cifre in perenne movimento. Basta dire che negli ultimi nove anni, periodo nel quale i finanziamenti diretti dello Stato si sono notevolmente ridotti rispetto al passato, la casa automobilistica fondata a Torino avrebbe beneficiato di 887 milioni di contributi pubblici fra cassa integrazione e incentivi per il personale. La generosità collettiva, per quanto rallentata, non ha conosciuto soste. I piani di incentivazione con le rottamazioni, ora per l’elettrico, non si sono mai arrestati. E in concomitanza con l’epidemia di Covid-19 l’azienda ha potuto beneficiare di un finanziamento Sace di 6,3 miliardi assistito da garanzia statale.

La produzione a Melfi è crollata del 62%

Nel 2012 Federcontribuenti calcolò che in 37 anni, dal 1975, il gruppo Fiat avrebbe attinto alle casse pubbliche per qualcosa come 220 miliardi di euro: comprendendo nella cifra, oltre ai finanziamenti a fondo perduto, cassa integrazione, prepensionamenti di migliaia di dipendenti e rottamazioni. Una valutazione forse abnorme. Ma mica tanto, se si pensa alle dimensioni mostruose degli ammortizzatori sociali mobilitati anche per gli insediamenti produttivi meridionali, fra cui quelli dell’Alfa Romeo.

Un economista come Mario Baldassarri, già viceministro dell’Economia con Silvio Berlusconi, ebbe un giorno a dire: «Tra la fine degli anni 70 e la metà degli anni 90 tra sostegni diretti e indiretti lo Stato italiano ha immesso quasi due volte il valore di Fiat in borsa in quel momento. È come se il contribuente italiano l’avesse comprata due volte».

Quanto ai sussidi diretti per gli stabilimenti, secondo la Cgia di Mestre in 35 anni sarebbero ammontati a 7,6 miliardi. Un miliardo e mezzo più di quanto la Fiat, sempre per la stessa fonte, avrebbe investito. Per il solo stabilimento di Melfi, in Basilicata, l’Erario avrebbe concesso al gruppo automobilistico più di trent’anni fa una somma analoga a 1,3 miliardi di oggi.

«A Melfi la previsione è raggiungere il target di 250-260 mila auto prodotte nel 2026», diceva Tavares soltanto a giugno. Fra le critiche di chi giudicava irrealistica la sua promessa di tornare a produrre in Italia un milione di auto l’anno, più del doppio di quelle che ormai si fabbricano oggi. Il sindacato Fim-Cisl ha denunciato che nei primi nove mesi del 2024 la produzione di Melfi è calata del 61,9% nel giro di un anno. Nei primi dieci anni l’industria di Melfi aveva sfornato 3 milioni di auto, in media 300 mila l’anno. Si attendono ora i propositi del successore di Tavares. (riproduzione riservata)

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