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G7 agricoltura, investimenti e diplomazia: l'Africa tra clima e speculazione

Mentre un terzo del cibo prodotto viene perso o sprecato, 2,3 miliardi di persone nel mondo non riescono a permettersi regimi alimentari sani. È lo scandalo dell’abbondanza, quello che condanna oltre un quinto della popolazione africana all’insicurezza alimentare. Perché se è vero che il continente nero ha visto aumentare negli ultimi decenni la produzione agricola – da 365 milioni di tonnellate cubiche del 1990 agli 1,1 miliardi attuali –, l’impatto delle crisi globali, le disuguaglianze e le speculazioni non hanno consentito progressi significativi nella lotta alla fame. Se emergono anche segnali di speranza – il miglioramento delle tecniche produttive, la formazione, pur lenta, di un mercato africano comune – è impossibile ignorare la sovrapposizione tra la mappa dei cambiamenti climatici e quella della fame, così come tra la mappa della fame e quella delle guerre, che in Africa si traducono in mille fughe, difficoltà distributive e abbandono delle coltivazioni.

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Secondo le Nazioni Unite servono azioni urgenti in aree fondamentali, da massicci investimenti in sistemi alimentari sostenibili ed equi fino alle partnership tra governi e imprese per costruire meccanismi che mettano al primo posto non i profitti ma le persone, soprattutto milioni di piccoli agricoltori che costituiscono il 60% della forza lavoro nel continente. Fondamentali sono gli investimenti per una produzione alimentare innovativa anche nei contesti più fragili, colture più resistenti all’estremizzazione del clima, un utilizzo diverso di un bene fondamentale come l’acqua, con meno sprechi e un maggior efficientamento energetico. Per l’Ifad, il Fondo internazionale per lo sviluppo agricolo, è necessario creare una nuova architettura finanziaria alimentare con governi, settore privato e partner di sviluppo che mobiliti fino a 400 miliardi di dollari all’anno fino al 2030: l’Africa è la regione che ne beneficerebbe maggiormente.

Dieci anni esatti sono trascorsi dall’adozione, da parte dei capi di Stato e di governo dell’Unione Africana, della Dichiarazione di Malabo, che prende il nome dalla capitale della Guinea Equatoriale che ospitò un importante vertice dell’organizzazione nel 2014. La Dichiarazione – il cui futuro è al centro delle discussioni al G7 agricoltura di Siracusa che si apre oggi con i ministri dei sette Grandi e una decina di ministri africani ospiti – aveva definito una serie di obiettivi e traguardi, denominati Obiettivi di crescita e trasformazione agricola accelerata per il 2025, e delineato sette impegni per promuovere la crescita e la trasformazione agricola. Anche allora, tra l’altro, si parlava del traguardo fame zero, di creare opportunità per almeno il 30% dei giovani nella catena di produzione agricola, di aumentare del 10% la spesa pubblica in agricoltura, di far sì che almeno un terzo dei piccoli produttori potessero adattarsi agli choc climatici e ad altre emergenze. Risultati tangibili e monitorabili, insomma, ma che in rari casi, e parzialmente, sono stati raggiunti.

Il cambiamento climatico, d’altronde, non è certo arretrato in questi anni, mentre l’onda lunga globale del Covid e della guerra in Ucraina hanno avuto impatto devastante sulla produzione agricola continentale, anche per quanto riguarda l’accesso a semi e fertilizzanti. Un recente studio dell’International Food Policy Research Institute di Washington mostra che il numero di Paesi valutati come sulla buona strada per raggiungere gli impegni della Dichiarazione di Malabo secondo 58 indicatori è diminuito nel tempo, da venti nel 2017 a quattro nel 2019 fino a solo uno nel 2021. Nel 2023, addirittura, nessuno dei 49 Paesi africani esaminati era sulla buona strada.

La produttività agricola africana è pari a 1,3 tonnellate per ettaro, circa il 60% in meno rispetto alla media mondiale. Il continente possiede il 50% delle terre ancora non coltivate e il 27% di quelle arabili, ma nonostante questo enorme potenziale è costretto a importare 60 miliardi di dollari di cibo all’anno. Lo sviluppo di una Agenda Post Malabo – che dovrebbe essere lanciata al summit dell’Unione Africana del prossimo gennaio a Kampala, in Uganda – punta, dunque, a rivedere e delineare strategia e obiettivi dei prossimi dieci anni, adattando gli impegni e i traguardi precedenti al nuovo scenario globale.

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Tra i fenomeni di cui si tiene sempre più conto c’è quello dell’urbanizzazione, una “megatendenza” che condiziona i sistemi agroalimentari, modificando qualità e tipo di alimentazione e che incide nella definizione delle politiche pubbliche. Dagli anni Novanta ad oggi la popolazione urbana nell’Africa sub-sahariana è più che raddoppiata, tanto che ormai oltre il 45% degli africani abita nelle città, rispetto al 31% di due decenni fa, un dato che potrebbe raggiungere il 75% entro il 2050. Secondo gli esperti, servono mercati con regole giuste, che riescano a sostenere i produttori nella copertura dei loro costi e dei loro margini, il che può avere poi un impatto positivo anche sulle retribuzioni della manodopera e delle comunità locali.

Chiave di volta, insieme a una migliore organizzazione delle catene del valore, restano poi gli investimenti innovativi e il sostegno al continente anche attraverso la diplomazia agricola e alimentare. Se gli aiuti a pioggia hanno dimostrato tutto il loro limite, interventi mirati che riescano a far camminare insieme Nord e Sud globale, Africa compresa, sono la miglior risposta per uno sviluppo duraturo e sostenibile.





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