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Il curatore del fallimento che intenda promuovere o eccepire la revoca ordinaria di un atto dispositivo compiuto dal debitore poi fallito, a norma degli artt. 66l. fall. e 2901 c.c., per dimostrare in giudizio l’eventus damni, ha l’onere di provare, per un verso, la sussistenza di preesistenti ragioni creditorie rispetto al compimento dell’atto pregiudizievole (rimaste, naturalmente, insoddisfatte e, come tali, poi ammesse al passivo del fallimento del debitore che ne è stato l’autore), e, per altro verso, il mutamento qualitativo e/o quantitativo che il patrimonio del debitore ha subito per effetto di tale atto, a condizione che dalla valutazione complessiva e rigorosa di questi elementi dovesse emergere, in fatto, che, in conseguenza dell’atto impugnato, sia divenuta, in ragione del valore o della natura del residui beni, oggettivamente più incerta o difficoltosa la soddisfazione dei crediti anteriori al suo compimento ed ammessi al passivo. In applicazione di tali principi, la S.C., con l’ordinanza n. 25407/2024, ha cassato il decreto del Tribunale che, in ragione della ritenuta fondatezza dell’eccezione di revocatoria ordinaria proposta dal Fallimento, aveva rigettato l’opposizione allo stato passivo di alcuni avvocati che chiedevano di essere ammessi per il credito maturato quale residuo compenso dell’attività di assistenza e consulenza legale stragiudiziale dagli stessi svolta in esecuzione dei contratti di conferimento dell’incarico professionale stipulati con la società poi fallita.
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