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Zitto, zitto, il ministro Giorgetti sta preparando la sua riforma delle pensioni, non epocale ma significativa e chissà se la Presidente e i suoi colleghi di governo se ne sono accorti. Provo a spiegarmi. Il ministro ha affermato di voler rendere “strutturali”, cioè almeno di medio periodo, due misure di politica fiscale a favore dei redditi medio-bassi già adottate negli scorsi anni come temporanee. Si tratta dell’accorpamento delle prime due aliquote Irpef (quella del 25 per cento, per la fascia reddituale 15–28 mila euro, si fonde con il 23 dello scaglione più basso) e della “decontribuzione” a favore dei lavoratori dipendenti: 7 punti percentuali fino a 25 mila euro annui di retribuzione lorda (tredicesima esclusa) e 6 fino a 35 mila. Il costo complessivo si stima in circa 15 miliardi di euro; soldi – non molti per ciascun beneficiato ma neppure disprezzabili – che i lavoratori si troveranno in tasca, al netto dell’imposta dovuta sull’aumento.
La prima misura è parte del piano governativo di ristrutturazione e riduzione delle imposte: in sé legittimo, soprattutto quando si tratta di redditi bassi, anche se problematico se lo si considera alla luce del grande debito pubblico con il quale il Paese dovrà fare i conti nei prossimi anni. La scommessa è che ridurre il carico fiscale, soprattutto ai redditi più bassi, faccia aumentare il Pil più che proporzionalmente così che la misura possa “autofinanziarsi” attraverso l’espansione del reddito prodotto dal Paese. Una scommessa, peraltro, che non trova riscontro in episodi di contenimento fiscale in altri Paesi, specie se indebitati. Le strade per la crescita passano per riforme e investimenti più che per la detassazione.
La seconda misura è più complessa e si presta a considerazioni più generali perché i contributi sociali non sono vere e proprie imposte ma risparmi (obbligatori) dei lavoratori destinati al finanziamento del consumo nell’età anziana, cioè a costruirsi una pensione. Ben più costosa della prima (da sola dovrebbe valere 10-12 miliardi), è anch’essa redistributiva, sperabilmente dai ricchi ai poveri. Nei fatti, si tratta sempre di aumentare le retribuzioni medio-basse ricorrendo al bilancio pubblico, anziché all’aumento della produttività del lavoro come sarebbe auspicabile e come potrebbe avvenire con un adeguato livello di investimenti che rendano il lavoro più produttivo, la crescita più sostenuta e i salari più elevati e crescenti. L’operazione non punta ad aumentare la “torta” ma a cambiare le fette nelle quali viene ripartita, aumentandone alcune e riducendone altre. Il paese ha bisogno di solidarietà nei confronti di chi sta peggio – e parallelamente di taglio di privilegi – ma realizzarla su un ammontare più grande di risorse sarebbe preferibile rispetto alla mera redistribuzione.
È legittimo allora domandarsi se sia opportuno stabilizzare la decontribuzione. Ciò impone anzitutto di renderne esplicito il finanziamento nel bilancio pluriennale, escludendo a priori il ricorso all’indebitamento dato che non si possono finanziare permanentemente a debito spese ricorrenti; né si può fare affidamento su proventi straordinari (come privatizzazioni, imposte su extraprofitti e condoni) perché temporanei per definizione o su entrate solo auspicate (come gli introiti della lotta all’evasione). La trasparenza è fondamentale e il governo dovrà indicare le maggiori imposte o le minori spese (operazioni entrambe politicamente impopolari) necessarie per finanziare nel tempo il provvedimento. Non paiono infatti esserci altre strade, a meno di poter contare sulla riduzione della spesa per interessi sul debito, cosa desiderabile ma che necessita di appropriate condizioni macroeconomiche (dimenticate dalla politica quando chiede insistentemente alla Bce tagli dei tassi indipendentemente dai rischi di inflazione che ne possono derivare).
In secondo luogo, è necessario correggere alcune distorsioni implicite nell’attuale configurazione a “soglie” di reddito della misura, ossia il fatto che, passando da poco sotto ad appena sopra la soglia (25 o 35 mila euro), il lavoratore può perdere non soltanto tutto il beneficio ma anche di più, con un effetto di disincentivazione a migliorare la propria posizione lavorativa e una spinta al lavoro nero.
Infine, c’è la questione previdenziale citata all’inizio, assai importante ma a rischio di sordina: rendere stabile la decontribuzione di parte dell’aliquota contributiva equivale, come già detto, a una vera e propria riforma pensionistica. Il nostro sistema, infatti, è basato sulla formula contributiva: tutti i contributi versati durante la vita di lavoro concorrono, insieme all’età di pensionamento, a determinare l’importo della pensione. Come dicono sempre i sindacati, la pensione è previdenza, cioè spostamento di risorse dalla vita lavorativa a quella “di riposo”. Sancire che una parte delle future pensioni sia messa direttamente a carico del bilancio pubblico anziché del lavoratore equivale a stabilire a priori che, per i percettori di redditi medio-bassi, una parte non piccola della pensione sarà addossata alla collettività generale, (6-7 punti di decontribuzione equivalgono al finanziamento di un 18-20 per cento della pensione futura). Poiché i redditi medio bassi sono tipicamente associati ai segmenti più fragili del mercato del lavoro (giovani, donne, lavoratori anziani) si realizza così la solidarietà nei loro confronti procurando, però, una ferita non trascurabile al metodo contributivo introdotto poco meno di 30 anni fa dalla riforma Dini ed esteso a tutte le anzianità future dalla riforma del 2011, per rendere il sistema sostenibile, trasparente e non disincentivante. Invece di aiutare questi segmenti a migliorare il loro percorso lavorativo e retributivo si opta, ancora una volta, per assicurarli che se anche saranno poveri nella vita di lavoro, potranno in ogni caso disporre di una piccola pensione da anziani. Siamo sicuri che non ci siano strade migliori per raggiungere salari e pensioni più adeguate?
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